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DonaSan Cesario del Vasto, la sentinella della fine dei tempi
A Vasto, cittadina abruzzese della costa dei trabocchi, è custodito da oltre tre secoli il corpo di un martire romano conosciuto come Cesario. Un santo venerato in una teca di legno e vetro come tanti altri distesi supini e con le mani giunte, nella posizione dell’eterno e meritato riposo. Ma San Cesario non riposa. Egli vigila, ritto sulla schiena con le sue nere orbite vuote rivolte verso il mondo, le braccia protese come a voler afferrare qualcosa di ineffabile. San Cesario si muove: questo raccontano i Vastesi; più in particolare si sta alzando e la leggenda vuole che il giorno in cui sarà completamente in piedi sarà l’ultimo di questo mondo.
Il “Guastum Gisonis” e la chiesa di Santa Maria
Nel corpo della città vecchia, il fitto dedalo di arterie converge verso la chiesa di S. Maria Maggiore, cuore pulsante della Vasto medievale e depositaria delle spoglie del Santo.
Giunti davanti all’edificio si rimane sconcertati dall’assenza di una vero e proprio ingresso principale. La soglia di questa bizzarra costruzione senza facciata è infatti quasi soffocata dal possente campanile costruito sui resti del primitivo bastione di “Guastum Gisonis”, simbolo della ripresa della città dopo le disgregazioni urbanistiche che segnarono la fine del mondo antico.
Queste viuzze strette e questo campanile-bastione (non a caso denominato “La battaglia”) ci narrano di un’epoca in cui costruire equivaleva a difendere: la torre per controllare; l’intrico di strade per confondere gli incursori venuti dal mare.
Entrando da una modesto ingresso laterale ci lasciamo alle spalle le scorrerie medievali per trovarci in un ampio e candido ambiente dall’estetica barocca. Gran parte dell’edificio, infatti, subì una ristrutturazione dopo che un incendio lo devastò nel 1645. Tuttavia l’oggetto di nostro interesse non si trova fra le vetrate e le possenti colonne che compongono il corpo principale della fabbrica. Dobbiamo spingerci oltre: percorriamo la navata centrale e scendiamo le scale poste sotto il presbiterio. Siamo ora nella cripta.
Il Santo nella teca di vetro
Le luci con sensore di movimento che si attivano non appena si varca la soglia dell’ambiente sotterraneo hanno in parte tolto l’aura di romanticismo e di mistero che si poteva respirare prima del restauro di questo ambiente nel 2014. I nostri occhi saranno subito attratti da una teca sulla destra contenente le spoglie di un individuo riccamente abbigliato, recante nella mano destra una palma e nella sinistra un’ampolla. Il corpo -coperto da un sottile velo che lascia intravedere il viso scarnificato- è quello che ci si potrebbe aspettare da un morto in avanzato stato di decomposizione. L’ abito è quello di un soldato romano. La palma è quella del martirio. L’ampolla contiene il suo sangue. Vi era, infatti, l’usanza di raccoglierlo da quei corpi la cui anima era automaticamente ritenuta santa in virtù della “testimonianza”, ovvero del martirio, senza bisogno di lunghi e farraginosi processi di canonizzazione. D’altronde, quale più alta prova di fede se non quella di offrire la propria vita per Dio? Eccolo San Cesario, vissuto come soldato di Roma e morto per diventare soldato di Cristo, con le mani e il corpo protesi verso di noi, a rammentarci la fugacità della vita terrena che tuttavia può vincere la morte col sigillo della fede.
Ma chi era San Cesario? A chi apparteneva e da dove proviene il suo scheletro?
Per scoprirlo dobbiamo intraprendere un breve viaggio nella Roma imperiale del III sec. d.C.
“Zetarius cubiculi Diocletiani Augusti”
Siamo nell’anno 286, Diocleziano domina su un impero che già da anni inizia a manifestare i primi segni di una crisi che porterà lentamente alla fine del regno d’occidente. Gli antichi valori che avevano fatto grande Roma vacillano, inizia la decadenza politica e morale dell’impero. Nessun terreno è quindi più propizio per la proliferazione della nuova fede cristiana, stendardo di speranza per i suoi adepti, che continuano ad aumentare esponenzialmente nonostante l’osteggiamento da parte del governo; dapprima velato e poi cruentemente manifesto con l’avvio delle persecuzioni dal 250 d.C. Nel grande palazzo imperiale sul Palatino risiede l’imperatore, circondato da un manipolo di servitori. Fra questi spicca un certo Castulo, “zetarius cubiculi Diocletiani Augusti”, in parole povere il suo cameriere. Castulo è cristiano e insieme alla moglie, Irene, ha nascosto nell’abitazione imperiale alcuni fedeli, tra cui il Papa Gaio. Quale tradimento per Diocleziano, beffeggiato in casa propria! Presto arriva la sadica condanna: essere sepolto vivo.
Il coraggio di un soldato
Parte dunque il corteo verso una cava lungo la Via Labicana. Esso è composto da una schiera di soldati che accompagnano Castulo alla sua destinazione finale. Il condannato possiede la beata serenità dei martiri e durante il tragitto non si astiene dal discorrere con un soldato che gli è accanto.
Giunti dinnanzi al luogo del martirio, al momento della chiusura del varco accade un fatto impensabile: il soldato, convertito durante il tragitto, rompe le fila e cerca di sottrarre Castulo dalla morte. Riuscirà solamente ad ottenere la palma del martirio anche per egli stesso. Così i due vengono rinchiusi insieme in quello che successivamente sarà conosciuto come cimitero di San Castulo. Esso accoglierà i corpi di centinaia di fedeli, attratti dalla santa presenza dei martiri. Passano i secoli, e una coltre di vegetazione e di oblio nasconde il cimitero dai possibili disturbatori, fino a quando uno dei pionieri dell’archeologia in Italia, Raffaele Fabretti, non lo ritrova pressoché intatto nel 1672. Tra i corpi che vengono traslati dai cunicoli della catacomba ritorna alla luce anche il coraggioso soldato romano che abbiamo incontrato nella nostra storia. Ha dunque così inizio la sua nuova vita, le cui vicissitudini le scopriremo nel prossimo articolo.