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DonaRaimondo di Sangro: un principe massone e il suo tempio
Raimondo di Sangro: settimo principe di Sansevero, inventore, scrittore, uomo di scienza e specialista nelle arti magiche quando il divario fra queste era ancora sottile. La sua vita fu una rocambolesca corsa alla scoperta e alla meraviglia e a tal scopo ogni branca dello scibile umano era concessa: l’iniziazione massonica e l’alchimia sono solo due degli infiniti rami dell’albero della conoscenza su cui Raimondo di Sangro si inerpicò.
Di lui tanto si è scritto e ancora di più si è detto ma un velo arcano continua a coprire la sua memoria che alimenta l’immagine di una Napoli settecentesca capitale del regno borbonico e dell’occulto.
Per il popolo il principe era semplicemente uno stregone.
Una personalità eclettica
Fin dalla giovinezza Raimondo di Sangro aveva dimostrato di far parte di quella ristretta cerchia di uomini che per talento e ingegno sono destinati a distinguersi fra i grandi del proprio secolo. Nel 1740 viene insignito del titolo di Cavaliere dell’Ordine di San Gennaro per la sua valorosa partecipazione alla guerra tra Asburgo e Borbone, nel 1743 entra nel novero degli studiosi dell’ Accademia della Crusca; tappe discordanti di una scalata al successo di un uomo poliedrico e straordinario.
Ben presto però la sua ascesa sembra subire un arresto. È il 1750 e Raimondo di Sangro viene eletto a quarant’anni gran maestro del Regno delle due Sicilie, la più alta carica all’interno della nascente massoneria. L’anno successivo arriverà l’inesorabile condanna verso la società e i suoi adepti da parte del Papa Benedetto XIV, che verrà reiterata subito dopo dal re Carlo III di Borbone, di cui Raimondo è un caro amico.
Per evitare spiacevoli ripercussioni per sé e per gli associati, il principe non esita di consegnare al re una lista dei nomi dei seguaci della setta. Quest’atto, se da un lato fa sì che la questione si risolva in una semplice ammonizione verbale -niente più di un paternale rimbrotto di un re per le marachelle dei suoi diletti sudditi- dall’altro costa a Raimondo la credibilità e il rispetto da parte dei suoi confratelli e, ormai, ex amici.
Nei sotterranei del palazzo
Da allora il principe si vide poco in società. Cominciò a passare gran parte del suo tempo nei sotterranei del suo palazzo nei pressi di piazza San Domenico.
“Fiamme vaganti, luci infernali – diceva il popolo – passavano dietro gli enormi finestroni che danno, dal pianterreno, nel vico Sansevero”
Salvatore Di Giacomo, Un signore originale, 1896
Qui aprì una tipografia dove utilizzò tecniche di stampa innovative per l’epoca, si dedicò con una passione quasi febbrile alla studio della natura e dei suoi segreti, sperimentò marchingegni di sua invenzione e c’è chi afferma che arrivò a scoprire con quasi centocinquanta anni di anticipo, i fondamenti della radioattività.
Soprattutto si dedicò con cura e devozione al rimodernamento del mausoleo di famiglia, un piccolo e prezioso scrigno barocco nel cuore di Napoli, custode dei tesori della sapienza che il mondo là fuori poteva solo intuire ma non comprendere. Stiamo parlando della Cappella Sansevero, oggi museo.
Un tempio massonico
Adiacente all’omonimo palazzo, la cappella racchiude in sé la testimonianza del genio del principe. Egli stesso ne fu l’ideatore iconografico e iconologico. Costretto ad abiurare formalmente la massoneria non ne abbandonò i principi e gli insegnamenti e, anzi, continuò a coltivarli segretamente, trasformando la Pietatella (la cappella è conosciuta anche con questo nome) nel suo personale tempio massonico.
Dietro l’apparente veste cristiana delle statue che ne contornano il perimetro, delle pitture sopra di noi e del pavimento ai nostri piedi si celano significati altri che solo un conoscitore del messaggio massonico riesce immediatamente a captare.
All’ingresso la statua di Cecco di Sangro, capostitipe della famiglia, ci “accoglie” con fare minaccioso, uscendo dal sepolcro e brandendo nell’aria una spada. Il monumento si ricollega a un episodio de
lla sua vita in cui si finse morto per due giorni al fine di poter ingannare i suoi nemici. A un secondo livello di lettura Cecco rappresenterebbe il risveglio dalla morte apparente che l’iniziato compie nel momento in cui entra nella setta, inoltre, è posto in alto, come un guardiano che stia difendendo una soglia violata dalla presenza disturbatrice di profani.
Sul soffitto un altro guardiano presiede la nostra visita: è il Maestro Venerabile, rappresentato dal triangolo che la colomba che campeggia al centro della composizione porta nel becco.
Il pavimento labirintico, di cui oggi rimane solo un piccolo lacerto, sarebbe invece metafora dell’impervio percorso verso la conoscenza, la sola che può condurre alla salvezza secondo la dottrina gnostica, su cui si basa la massoneria.
I marmi alchemici
Le dieci statue delle Virtù che ci accompagnano verso l’altare rappresenterebbero le progressive tappe del cammino dell’iniziato verso la perfezione gnostica. Così la statua del Decoro simboleggerebbe il dominio sulla natura ferina dell’uomo e quella dell’Amor divino l’acquisizione della rettitudine morale, la pesante rete del Disinganno è il fardello del peccato di cui l’uomo redento a fatica si svincola. Solo
sbarazzandosi dei vizi e delle debolezze si può infatti giungere a scoprire quel velo che rende nebbiosa e impenetrabile la verità ai più.
Un velo sottile e impalpabile, eppure tangibile, tale è l’impressione che le statue della Pudicizia e del Cristo velato suscitano nel visitatore. Nella Pudicizia si è unanimamente riconosciuta la raffigurazione di Iside velata. Essa è la dea della scienza iniziatica ed è un chiaro omaggio ai riti egizio-alessandrini di cui Raimondo si era fatto promulgatore.
Il Cristo velato, si staglia nel centro della cappella. Un velo, quello del sudario del Cristo, che copre ma non nasconde, in cui il corpo pare ancora vibrare dell’ultimo fremito del martirio o del primo palpito della resurrezione. Se la Pudicizia è ieratica e distante, il Cristo velato è la concreta tribolazione del Dio fatto uomo.
Tale era la meraviglia suscitata da questo impalpabile velo di marmo che presto iniziò a circolare la leggenda che esso fosse in origine reale e avesse in seguito subito per trasfigurazione alchemica un processo di marmorizzazione; leggenda ispirata dallo stesso Raimondo che nella sua Lettera apologetica affermava infatti di aver trovato la chiave per marmorizzare gli oggetti più disparati.
La morte del principe
Nel 1771, sentendo avvicinarsi l’ora della morte, Raimondo ingurgitò un elisir di sua invenzione e ordinò a un servo fidato di riporre il suo corpo all’interno di un baule dopo averlo smembrato. Qui, a contatto con elementi chimici opportunamente dosati, sarebbe dovuto rinascere. Ma l’esperimento di palingenesi terminò macabramente: alcuni suoi parenti, non conoscendo le sue disposizioni, aprirono il baule prima del tempo e il corpo larviforme di quello che era stato il principe, ebbe solo il tempo di erompere in un grido disperato prima di disfarsi completamente. Il suo sepolcro si trova in una nicchia sul lato destro della cappella.