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DonaNapoli, il fantasma di Maria D’Avalos
Vi sono amori su cui è possibile scorgere il marchio di un tragico epilogo fin dal primo complice incontro di sguardi. Poco importa ai due amanti se un filo nefasto li porterà alla rovina, seguirlo è una necessità irresistibile quando l’unico scopo dell’amore è amare. Tale è la vicenda di Maria D’Avalos e di Fabrizio Carafa la cui relazione illecita fu pagata a costo della vita.
Scenario di questo dramma fu Palazzo Sansevero a Napoli, in seguito dimora del principe Raimondo di Sangro, delle cui stravaganze abbiamo già raccontato.
Alla corte dei Viceré
La triste favola d’amore di Maria D’Avalos e Fabrizio comincia sul finire degli anni ‘8o del ‘500, tra i salotti e le feste della corte del regno di Napoli, in quegli anni ridotto ad appendice del Regno spagnolo, che lo governava tramite il susseguirsi di viceré le cui uniche occupazioni erano quasi sempre l’ostentazione della ricchezza e l’esercizio della vanagloria.
Nel 1586 l’allora ventiquattrenne Maria sposò in terze nozze un cugino, Carlo Gesualdo, meglio noto col nome di Gesualdo da Venosa, di quattro anni più giovane di lei.
Non erano fatti per stare insieme, Maria e Gesualdo. Maria era passionale e volitiva, una creatura squisitamente terrena, la cui bellezza fu cantata e idealizzata dai poeti dell’epoca. Gesualdo era un’anima inquieta e contemplativa, dedito alle battute di caccia e alla musica più che all’espletamento dei doveri coniugali. La lontananza fisica e spirituale fra i due sposi creò quindi un vuoto che fu riempito dal bel Fabrizio, duca d’Andria e conte di Ruvo, soprannominato “L’angelo” per la sua bellezza che rasentava la perfezione. Lei la rosea carne e il sangue, lui la luce aurea e abbagliante, due opposti destinati a completarsi e a fondersi in una cosa sola.
Un segreto di Pulcinella
L’ impeto del sentimento li spingeva ogni volta a rischiare un po’ di più. L’amore non era mai pago e per ogni incontro esigeva un soddisfacimento più alto rendendo sempre più audaci i due amanti.
D’altronde Gesualdo era spesso lontano, o perché impegnato fuori città per la caccia o perché mentalmente altrove, a sistemare le note fra le righe del pentagramma. Quando stava fuori più giorni i due amanti si davano convegno nella camera di Maria D’Avalos, sul letto nuziale di Gesualdo.
Ma se Gesualdo neppure immaginava, la gente vedeva e parlava. Dapprima furono i nobili -gli amici di Maria D’Avalos e Fabrizio- ad accorgersi del loro strano contegno, poi la servitù, che certamente ebbe un ruolo determinante per la buona riuscita della loro tresca…ben presto tutta Napoli sapeva; tutti tranne Gesualdo.
Un’onta da lavare col sangue
I pettegolezzi furono i suoi occhi e i suoi consiglieri. Le parole possono a volte essere più insidiose ed efficaci degli intrighi più macchinosi. A scagliare il dardo che portò Gesualdo a commettere il duplice assassinio fu il suo segretario, l’abate Fabrizio Adinolfi, conosciuto col nomignolo non molto edificante di “‘O prevetuccio”, a causa della sua bassezza che sfiorava il nanismo, bassezza non solo fisica, ma anche morale. Pare che l’abate si fosse invaghito della bella Maria, ma non ricevendo da lei altre attenzioni che un secco “no” si risolse nel infimo intento di inoculare in Gesualdo il veleno del dubbio e l’urgenza di vendicare l’offesa subita.
Gesualdo preparò così la sua trappola. Come Gianciotto con Paolo e Francesca, disse alla sposa che sarebbe stato via più giorni. Quella stessa notte, fra il 16 e il 17 ottobre del 1590, si appostò nei corridoi del palazzo insieme a due fidi uomini e con essi fece irruzione nella stanza sul cui letto giacevano i corpi di Maria e Fabrizio, intrecciati nell’abbraccio ancora vibrante dell’amplesso amoroso appena terminato. Fu un attimo, giusto il tempo che il sudore si raggelasse alla vista di Gesualdo e dei suoi servi, e il delitto fu compiuto.
Probabilmente non fu Gesualdo a commetterlo materialmente; fu per il residuo di sentimento che ancora lo legava a Maria o per viltà? Una verità che solo lui poté esplorare.
I corpi senza vita dei due amanti furono poi esposti per una settimana al pubblico ludibrio sulla scalinata d’ingresso del palazzo, a dimostrare che l’onta era stata lavata col sangue.
Che ne fu di Gesualdo?
Tollerato dalla legge, approvato dal popolo, il delitto di Palazzo Sansevero non prevedeva alcuna conseguenza penale. Solo, per consiglio del conte di Miranda, allora viceré del regno, fu suggerito a Gesualdo di allontanarsi per qualche tempo da Napoli per timore di ripercussioni da parte delle rispettive famiglie dei due amanti.
Ma la coscienza, occhio indagatore dell’anima, non smise mai di pungolarlo nell’intimo. Si recò per qualche tempo a Ferrara, dove convolò a nuove nozze con Eleonora d’Este, poi passò il resto della sua vita a Gesualdo, suo paese d’origine, trasformandone il castello nel suo esilio dorato.
La musica era la vera amante di Gesualdo. I suoi madrigali sono intrisi di quell’atmosfera severa e un po’ lugubre tipica del periodo della controriforma, dove lo slancio sensuale dei cori polifonici pare essere soggiogato dalla secca assenza di strumenti musicali. Si crea così un equilibrio solo in apparenza squilibrato, in cui la musica dimessa alla parola plasma una spiritualità dolorosa, quasi fisica. Gesualdo era un uomo del suo tempo, cantore di quel rinascimento esausto che fu il manierismo e cantore, forse, del tormento che lo perseguitò per il resto della sua vita.
Il corpo e l’anima
Tanta fu, all’epoca, la risonanza dell’efferato delitto che non pochi artisti ne cantarono le vicende, fra questi anche il Tasso e il Marino. Il corpo di Maria venne sepolto accanto al suo primo consorte, nella chiesa di San Domenico Maggiore, prospiciente il palazzo.
Ma l’anima sbigottita non riuscì ad abbandonare le mura tra cui tanto passionalmente aveva vissuto. Per secoli rimase prigioniera nella camera che fu testimone dei dolci bisbigli degli incontri amorosi e delle dolorose urla della morte. Il silenzio di quelle quattro pareti veniva lacerato ogni notte da un grido agghiacciante: l’ultimo grido della sventurata prima di morire ammazzata. Ogni notte, alla stessa ora, per trecento anni. Finché il 28 settembre 1889 un’ala del palazzo crollò, portandosi via quelli che erano stati gli appartamenti di Maria e liberando il suo fantasma.
Da allora si dice che nelle notti di luna piena, quando Napoli è stranamente silenziosa, ella si aggiri tra il palazzo e l’obelisco di piazza San Domenico: le bionde chiome fluttuanti, le vesti discinte… una bellezza carnale sfaldata in una figura diafana, sul cui spettro è impresso per sempre l’attimo estremo della morte.