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DonaGiuditta Guastamacchia – il fantasma degli avvocati
“Era alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna […] e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano. Al villaggio la chiamavano la Lupa perché non era sazia giammai – di nulla”.
La descrizione che Verga fa della Lupa (eroina dell’omonima novella), evoca il fascino oscuro e sensuale di Giuditta Guastamacchia, donna controversa e spietata assassina vissuta a Napoli alla fine del ‘700. Oltre a una femminilità ferina e conturbante, le due sono accumunate dalla maledizione di un amore “sbagliato” che le ha condotte alla rovina.
Ma il finale della nostra storia è ben diverso da quello di Verga; Giuditta non fu vittima, bensì carnefice.
Un castello trasformato in carcere
Il fatto di cronaca nera che vide protagonista Giuditta Guastamacchia sconvolse i napoletani al punto di tramutarsi in leggenda popolare. Si dice che la sua anima inquieta sia rimasta legata a Castel Capuano, luogo in cui fu emessa la condanna a morte.
Si tratta del secondo castello più antico di Napoli, costruito nel 1154 dal re normanno Guglielmo il Malo. Nel XVI secolo, l’edificio fu trasformato in palazzo di giustizia e sede della Vicaria. Le stanze che avevano ospitato reali del calibro di Federico II di Svevia diventarono così aule di tribunale, mentre i sotterranei furono adibiti a prigione.
Fu proprio a Castel Capuano che Giuditta trascorse le ultime ore della sua vita, prima di scontare la pena capitale ed essere esposta al pubblico ludibrio. Ma partiamo dall’inizio…
Peccaminosa passione
Della vita di Giuditta si conoscono solo i particolari più torbidi. Rimasta vedova in giovane età, fu spedita nel convento di Sant’Antonio alla Vicaria, dove rimase fino al 1794. Qui Giuditta iniziò una pericolosa tresca amorosa con Don Stefano d’Aniello, prete adultero sensibile più al richiamo della carne che alla parola di dio.
La relazione peccaminosa proseguì oltre le mura del convento, assumendo tinte sempre più fosche. Le voci iniziarono a circolare e i sospetti ad aumentare. Il segreto non era più al sicuro, così i due trovarono il modo per zittire le malelingue. Come la Lupa che fa sposare la figlia con il suo amante in modo da averlo sempre a disposizione, così Giuditta sposò il nipote sedicenne di Don Stefano, creando la copertura perfetta.
L’inganno andò avanti alcuni anni, finché il ragazzo scoprì l’adulterio. Sentendosi tradito due volte – come marito e come nipote – egli minacciò di denunciare tutto alle autorità. Fu allora che nella mente di Giuditta prese forma l’idea insana che avrebbe decretato la sua fine. Pianificò tutto nei minimi dettagli, coinvolgendo persino il padre e altri tre uomini: Don Stefano, un chirurgo e un barbiere.
L’orribile massacro
Il malcapitato fu attirato in casa e in pochi minuti si consumò l’orgia di orrore e violenza. Giuditta strangolò il marito con una corda mentre gli altri lo tenevano fermo. Poi, sotto la guida del chirurgo, il cadavere fu fatto a pezzi e bollito per arrestarne il sanguinamento. Come un macabro bottino, i complici raccolsero i resti smembrati, dividendosi il compito di disperderli in giro.
Ma la mannaia della giustizia si abbatté rapidissima sui criminali. Il barbiere fu sorpreso da due guardie mentre tentava di disfarsi delle braccia della vittima. L’uomo fu arrestato e, dopo un lungo interrogatorio, confessò tutto, facendo i nomi di Giuditta e degli altri complici.
Il gruppo di assassini tentò la fuga, ma inutilmente. Furono presi e condotti a Castel Capuano, dove si svolse un processo “lampo”. Vennero tutti condannati alla forca, tranne Don Stefano. A lui toccò una sorte peggiore della morte: fu rinchiuso nella “fossa di Marettimo”, una cisterna scavata nella roccia in cui gli ergastolani venivano letteralmente lasciati a marcire.
La fine di un’assassina
Giuditta Guastamacchia fu impiccata il 19 aprile 1800 in Piazza delle Pigne (attuale Piazza Cavour) alle ore 20. Mani e testa furono tagliate ed esposte davanti alla Vicaria, sotto lo sguardo della folla inferocita ed esultante.
Il caso Guastamacchia è riportato nel “Diario Napoletano” di Carlo de Nicola che seguì il processo. La cronaca diventò leggenda e Giuditta si trasformò nel fantasma degli avvocati che torna nell’ex tribunale ogni 19 aprile. C’è chi giura di aver sentito le sue grida rabbiose, chi invece l’avrebbe vista rovistare tra le carte dell’archivio, forse in cerca del fascicolo sul suo processo.
Per ritrovarsi faccia a faccia con Giuditta, tuttavia, basta visitare il Museo di Anatomia di Napoli dove è conservato il suo teschio, donato nel 1869 dagli studiosi di fisiognomica criminale.
Forse, scrutando in fondo alle orbite vuote, incontrerete gli occhi neri e scintillanti della fatale Giuditta.